L’insostenibile
pesantezza dell’essere dipendenti
di Riccardo Malafronte
Mi
perdoni Milan Kundera – dal cui celeberrimo romanzo, edito
esattamente trent’anni fa, ho tratto l’ispirazione per il titolo
di questo articolo – ma l’attrazione è stata
irresistibile!
E
non solo per la forma.
L’uso
dilagante del termine “dipendente” per riferirsi alle persone sul
cui lavoro si fonda la pubblica amministrazione è ormai
talmente inveterato che non ci si fa più caso. I sinonimi non
mancherebbero, però si continua a preferirlo ad altre parole o
espressioni, più o meno semplici, come impiegato, funzionario,
amministrativo; per non parlare di quelle più ardite come
unità produttiva, organico, lavoratore.
Per
rendere un’idea, due esempi freschi freschi – quasi di giornata
per i tempi lenti ed espansivi della macchina regionale.
Primo
esempio. Circolare dell’attuale Assessore al Personale n. 1093/SP
del 31 maggio 2012 ad oggetto: Osservanza dell’orario di
servizio.
Il
termine “dipendenti” compare 5 volte; segue “personale”, con
4 occorrenze; poi “dirigenti” con 3 e addirittura un outsider:
“cittadini”, con una sola presenza. Fanalino di coda: “attività
lavorativa”, anch’essa solitaria, l’unica parola presente nella
nota che rimanda direttamente al sempre dignitoso e mai desueto
concetto di lavoro.
Secondo
esempio. Lettera aperta sul possibile trasferimento degli uffici e
del personale regionali del Centro Direzionale di Napoli in quel di
Bagnoli, nell’ex area NATO del noto quartiere musical-operaio
partenopeo.
Ancora
una cinquina per il gettonatissimo “dipendenti”. Direi pure un
5+1 di apprezzamento visto che la lettera si conclude con una chicca:
l’invito alla sottoscrizione da parte de I Dipendenti della
Giunta Regionale dove l’iniziale maiuscola della parola che a
noi interessa la dice tutta sullo spirito corporativo dei potenziali
firmatari. Seguono 2 occorrenze per la parola “lavoratore/i”,
distillata pura, che diventano poi 3 con il corretto “regionali”;
una per “personale”. Da segnalare, per dovere di cronaca, la
presenza anarchica del sostantivo “lavoro”, avvistata in almeno 2
passaggi, e soprattutto la commovente presenza della parola “anime”
che soltanto l’aggiunta dell’aggettivo “povere” avrebbe reso…
sublime.
Tralascio
volutamente altre osservazioni sulla questione e vengo al punto. Per
ulteriori approfondi-avvistamenti invito a passare in rassegna anche
solo un minimo campione della nutrita letteratura amministrativa
regionale oppure a scorrere siti internet come il portale
www.regione.campania.it e l’apprezzabile pagina di Facebook
“Dipendenti Regione Campania”.
Noi
non siamo dipendenti. Noi siamo lavoratori. LA-VO-RA-TO-RI.
Una parola viva, calda, vigorosa, densa sul cui
significato, ahimè, spesso non ci soffermiamo a riflettere:
epico, romantico, edificante, nobile, fondativo, costituzionale,
trasformativo.
“Dipendente”,
invece, è una parola di tutt’altra pasta.
Innanzitutto
è discriminante, asimmetrica: perché un collega
di categoria B, D, A o C è un dipendente, mentre un
dirigente è dirigente e un assessore è un
assessore? Non siamo pagati tutti dalla stessa cassa pubblica?
Sì. Pertanto, non dovremmo essere tutti
dipendenti di chi ci paga gli stipendi, e cioè dei cittadini?
Sì. E non è che nella ragnatela di giochi di
potere alimentata dai rapporti di dipendenza – ricordate il grande
Totò: Siamo uomini o caporali? – si perdono di vista i fini
che contraddistinguono il pubblico impiego? Probabilmente sì.
Ancora,
“dipendente” è una parola debole che si presta
facilmente a un uso strumentale. Per esempio, dire “dipendenti
fannulloni” è come sparare sulla Croce Rossa. Provate invece
a dire “lavoratore fannullone” e vedrete come il sostantivo ha la
meglio sull’aggettivo (e non lo rinforza, come il participio
presente fa nel primo caso) determinando un’inevitabile scelta: o
lavoratore o fannullone. Un lavoratore può lavorare di più
o di meno, può farlo bene o male, assiduamente o
saltuariamente, ma sempre di lavoro si tratta, giusto? Al fannullone
questo semplice ragionamento non si può applicare: è un
fannullone, punto e basta!
Infine,
“dipendente” è un termine difettoso, incompleto,
associato solitamente a qualcosa di negativo: tossico-dipendente,
video-dipendente, ludo-dipendente, alcol-dipendente, dipendente dagli
altri e così via. È un po’ come partire con il piede
sbagliato, come voler avanzare innestando la retromarcia, come darsi
la zappa sui piedi, insomma.
Chiediamoci,
adesso, quante volte ci siamo soffermati sul fatto che nella
stragrande maggioranza delle comunicazioni da e per
l’Amministrazione o da e per i Sindacati si utilizzi
proprio questa parola per riferirsi al personale? La cosa peggiore,
tuttavia, non è tanto questa: è che siamo noi stessi
oramai a definirci con quel termine! Ci siamo assuefatti a percepire
noi e i nostri colleghi attraverso una forma verbale pesante e
castrante.
Tra
dipendente e lavoratore, tra il sentirsi unico tra pari
piuttosto che al di sotto o al di sopra di qualcuno, tra il dire “io
dipendo” e “io lavoro”, dovremmo sentire perfettamente in quale
parte identificarci. Un possibile punto di partenza da cui iniziare a
costruire una nuova consapevolezza dell’essere lavoratori è
l’idea che del personale della Giunta regionale hanno
Amministrazione, Sindacati e, soprattutto, i Regionali stessi. Di
questi tre fattori, affinché vi possa essere davvero sinergia
e sviluppo reciproci per il benessere del singolo e della
collettività, l’elemento unificatore dovrebbe essere la
lealtà d’intenti, cioè il dichiarare con trasparenza
e onestà “cosa rappresentata qualcosa a chi e per quale
scopo”, nel più classico dei “A che gioco giochiamo?”
Una
tale domanda potrebbe ricevere risposte nuove, rivoluzionarie, dalle
parti in causa (Amministrazione, OO.SS., Personale), nella
consapevolezza dell’ambiguità storica e attuale con cui si
considera la forza-lavoro in Regione Campania. In questo senso si
attagliano alla perfezione le parole del sociologo e filosofo
anglo-polacco Zygmunt Bauman: “Si ha la sensazione che vengano
giocati molti giochi contemporaneamente, e che durante il gioco
cambino le regole di ciascuno” (La società
individualizzata).
Ritornando
al romanzo di Kundera, i suoi critici sostengono che all’origine
dell’insostenibile leggerezza dell’essere vi sia l’unicità
della vita. L’esistenza e le scelte che ognuno compie nel suo
dipanarsi appaiono all’autore del tutto irrilevanti e in ciò
risiede la loro leggerezza. Il contrasto tra questa sfuggente
evanescenza della vita e, viceversa, la necessità umana di
rintracciare in essa un significato si risolve, tuttavia, in un
paradosso insostenibile (fonte Wikipedia).
Insostenibile
e, quindi, pesante.
La
ricerca di un significato da dare a tutti noi e al nostro lavoro,
però, non è un mero esercizio linguistico. È un
processo d’innovazione, un tentativo di autodeterminazione e di
rappresentazione di se stessi che vale la pena provare a realizzare.
Certo, c’è il rischio di riprodurre un vuoto gioco di
parole, un (ennesimo…?) effetto di prestigio verbale come è
stato, per esempio, lo slogan di inizio millennio “La Regione
che cambia”. Ma non esistono parole vuote, inutili,
insignificanti o morte se non perché lo sono già nella
testa e nel cuore di chi le pensa.
Riccardo
Malafronte
2 commenti:
Cambio il nome al gruppo mantendo entrambi per non perdere il valore "vero" e vederlo mescolato con quello mediatico linguistico: la ovvia classificazione effettuata e perpetrata dalla condizione di essere "cittadini" di queto stato, con grande onore, mi fa tenere il termine DIPENDENTE perchè dipendiamo comunque! la presa di conscienza che il cambiamento fà evolvere e anche come riscatto di chi ha usato maldestramente quel termine gli aggiungo LA-VO-RA-TO-Ri proprio come lo hai sillabato caro Riccardo Malafronte.. grazie baci Nunzia Leone
Cara Nunzia, il "compromesso storico" ci fa un baffo! :-)
Scherzi a parte, accolgo con grande soddisfazione l'ampliamento del nome del gruppo. Ti ricordi quando te ne accennai un paio di anni or sono? Continuiamo così!
Riccardo Malafronte
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