martedì 19 giugno 2012

RIFLESSIONI DI UN COLLEGA


L’insostenibile pesantezza dell’essere dipendenti
di Riccardo Malafronte

Mi perdoni Milan Kundera – dal cui celeberrimo romanzo, edito esattamente trent’anni fa, ho tratto l’ispirazione per il titolo di questo articolo – ma l’attrazione è stata irresistibile!
E non solo per la forma.

L’uso dilagante del termine “dipendente” per riferirsi alle persone sul cui lavoro si fonda la pubblica amministrazione è ormai talmente inveterato che non ci si fa più caso. I sinonimi non mancherebbero, però si continua a preferirlo ad altre parole o espressioni, più o meno semplici, come impiegato, funzionario, amministrativo; per non parlare di quelle più ardite come unità produttiva, organico, lavoratore.
Per rendere un’idea, due esempi freschi freschi – quasi di giornata per i tempi lenti ed espansivi della macchina regionale.
Primo esempio. Circolare dell’attuale Assessore al Personale n. 1093/SP del 31 maggio 2012 ad oggetto: Osservanza dell’orario di servizio.
Il termine “dipendenti” compare 5 volte; segue “personale”, con 4 occorrenze; poi “dirigenti” con 3 e addirittura un outsider: “cittadini”, con una sola presenza. Fanalino di coda: “attività lavorativa”, anch’essa solitaria, l’unica parola presente nella nota che rimanda direttamente al sempre dignitoso e mai desueto concetto di lavoro.
Secondo esempio. Lettera aperta sul possibile trasferimento degli uffici e del personale regionali del Centro Direzionale di Napoli in quel di Bagnoli, nell’ex area NATO del noto quartiere musical-operaio partenopeo.
Ancora una cinquina per il gettonatissimo “dipendenti”. Direi pure un 5+1 di apprezzamento visto che la lettera si conclude con una chicca: l’invito alla sottoscrizione da parte de I Dipendenti della Giunta Regionale dove l’iniziale maiuscola della parola che a noi interessa la dice tutta sullo spirito corporativo dei potenziali firmatari. Seguono 2 occorrenze per la parola “lavoratore/i”, distillata pura, che diventano poi 3 con il corretto “regionali”; una per “personale”. Da segnalare, per dovere di cronaca, la presenza anarchica del sostantivo “lavoro”, avvistata in almeno 2 passaggi, e soprattutto la commovente presenza della parola “anime” che soltanto l’aggiunta dell’aggettivo “povere” avrebbe reso… sublime.
Tralascio volutamente altre osservazioni sulla questione e vengo al punto. Per ulteriori approfondi-avvistamenti invito a passare in rassegna anche solo un minimo campione della nutrita letteratura amministrativa regionale oppure a scorrere siti internet come il portale www.regione.campania.it e l’apprezzabile pagina di Facebook “Dipendenti Regione Campania”.

Noi non siamo dipendenti. Noi siamo lavoratori. LA-VO-RA-TO-RI. Una parola viva, calda, vigorosa, densa sul cui significato, ahimè, spesso non ci soffermiamo a riflettere: epico, romantico, edificante, nobile, fondativo, costituzionale, trasformativo.
“Dipendente”, invece, è una parola di tutt’altra pasta.
Innanzitutto è discriminante, asimmetrica: perché un collega di categoria B, D, A o C è un dipendente, mentre un dirigente è dirigente e un assessore è un assessore? Non siamo pagati tutti dalla stessa cassa pubblica? . Pertanto, non dovremmo essere tutti dipendenti di chi ci paga gli stipendi, e cioè dei cittadini? . E non è che nella ragnatela di giochi di potere alimentata dai rapporti di dipendenza – ricordate il grande Totò: Siamo uomini o caporali? – si perdono di vista i fini che contraddistinguono il pubblico impiego? Probabilmente .
Ancora, “dipendente” è una parola debole che si presta facilmente a un uso strumentale. Per esempio, dire “dipendenti fannulloni” è come sparare sulla Croce Rossa. Provate invece a dire “lavoratore fannullone” e vedrete come il sostantivo ha la meglio sull’aggettivo (e non lo rinforza, come il participio presente fa nel primo caso) determinando un’inevitabile scelta: o lavoratore o fannullone. Un lavoratore può lavorare di più o di meno, può farlo bene o male, assiduamente o saltuariamente, ma sempre di lavoro si tratta, giusto? Al fannullone questo semplice ragionamento non si può applicare: è un fannullone, punto e basta!
Infine, “dipendente” è un termine difettoso, incompleto, associato solitamente a qualcosa di negativo: tossico-dipendente, video-dipendente, ludo-dipendente, alcol-dipendente, dipendente dagli altri e così via. È un po’ come partire con il piede sbagliato, come voler avanzare innestando la retromarcia, come darsi la zappa sui piedi, insomma.

Chiediamoci, adesso, quante volte ci siamo soffermati sul fatto che nella stragrande maggioranza delle comunicazioni da e per l’Amministrazione o da e per i Sindacati si utilizzi proprio questa parola per riferirsi al personale? La cosa peggiore, tuttavia, non è tanto questa: è che siamo noi stessi oramai a definirci con quel termine! Ci siamo assuefatti a percepire noi e i nostri colleghi attraverso una forma verbale pesante e castrante.
Tra dipendente e lavoratore, tra il sentirsi unico tra pari piuttosto che al di sotto o al di sopra di qualcuno, tra il dire “io dipendo” e “io lavoro”, dovremmo sentire perfettamente in quale parte identificarci. Un possibile punto di partenza da cui iniziare a costruire una nuova consapevolezza dell’essere lavoratori è l’idea che del personale della Giunta regionale hanno Amministrazione, Sindacati e, soprattutto, i Regionali stessi. Di questi tre fattori, affinché vi possa essere davvero sinergia e sviluppo reciproci per il benessere del singolo e della collettività, l’elemento unificatore dovrebbe essere la lealtà d’intenti, cioè il dichiarare con trasparenza e onestà “cosa rappresentata qualcosa a chi e per quale scopo”, nel più classico dei “A che gioco giochiamo?”
Una tale domanda potrebbe ricevere risposte nuove, rivoluzionarie, dalle parti in causa (Amministrazione, OO.SS., Personale), nella consapevolezza dell’ambiguità storica e attuale con cui si considera la forza-lavoro in Regione Campania. In questo senso si attagliano alla perfezione le parole del sociologo e filosofo anglo-polacco Zygmunt Bauman: “Si ha la sensazione che vengano giocati molti giochi contemporaneamente, e che durante il gioco cambino le regole di ciascuno” (La società individualizzata).

Ritornando al romanzo di Kundera, i suoi critici sostengono che all’origine dell’insostenibile leggerezza dell’essere vi sia l’unicità della vita. L’esistenza e le scelte che ognuno compie nel suo dipanarsi appaiono all’autore del tutto irrilevanti e in ciò risiede la loro leggerezza. Il contrasto tra questa sfuggente evanescenza della vita e, viceversa, la necessità umana di rintracciare in essa un significato si risolve, tuttavia, in un paradosso insostenibile (fonte Wikipedia).
Insostenibile e, quindi, pesante.
La ricerca di un significato da dare a tutti noi e al nostro lavoro, però, non è un mero esercizio linguistico. È un processo d’innovazione, un tentativo di autodeterminazione e di rappresentazione di se stessi che vale la pena provare a realizzare. Certo, c’è il rischio di riprodurre un vuoto gioco di parole, un (ennesimo…?) effetto di prestigio verbale come è stato, per esempio, lo slogan di inizio millennio “La Regione che cambia”. Ma non esistono parole vuote, inutili, insignificanti o morte se non perché lo sono già nella testa e nel cuore di chi le pensa.

Riccardo Malafronte

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Cambio il nome al gruppo mantendo entrambi per non perdere il valore "vero" e vederlo mescolato con quello mediatico linguistico: la ovvia classificazione effettuata e perpetrata dalla condizione di essere "cittadini" di queto stato, con grande onore, mi fa tenere il termine DIPENDENTE perchè dipendiamo comunque! la presa di conscienza che il cambiamento fà evolvere e anche come riscatto di chi ha usato maldestramente quel termine gli aggiungo LA-VO-RA-TO-Ri proprio come lo hai sillabato caro Riccardo Malafronte.. grazie baci Nunzia Leone

Anonimo ha detto...

Cara Nunzia, il "compromesso storico" ci fa un baffo! :-)
Scherzi a parte, accolgo con grande soddisfazione l'ampliamento del nome del gruppo. Ti ricordi quando te ne accennai un paio di anni or sono? Continuiamo così!

Riccardo Malafronte

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